In bocca al lupo ai Milanisti per stasera! Il Milan e il suo opposto ArsenalMaldini attacca: «Loro al top ma i campioni del mondo siamo noi»I campioni d’Europa tornano a passeggiare nel loro giardino preferito, la Champions: Arsenal-Milan non capitava dal 1994, era la finale di Supercoppa e i rossoneri, 0-0 ad Higbury e 2-0 a San Siro (Boban e Massaro), liquidarono la pratica al solito modo. Era il Milan di Capello: cinico e chirurgico. Ma quell’Arsenal non aveva ancora cambiato sesso, noioso e asfittico tanto da meritarsi un coro dei suoi tifosi per celebrare la sfilza di vittorie per 1-0. Se è per questo, non era ancora uscito dalla casa di Higbury, ora invece diventato un’infilata di appartamenti affittati a nostalgici di George Graham e a trend setter in perenne ricerca di una zona da glamourizzare. Questa sera al Milan (che ieri ha ricevuto la visita di Shevchenko. Ha chiamato anche Abramovich: «Caro Galliani, mi trovi tre biglietti per la partita?». «Se mi dài Drogba» la risposta dell’ad rossonero nel siparietto telefonico con il signor Chelsea) si spalancano le porte dell’Emirates stadium e saranno, i rossoneri, la prima squadra italiana a metterci piede. Novità più statistica che altro se paragonata a quello che sono diventati i Gunners. Lo chiamano modello Arsenal. Finora vincente solo aldiquà della Manica, ha sfiorato il timbro doc da esportazione due anni fa, perdendo la finale di Champions col Barcellona. Un’altra squadra (il Milan, tanto per fare un esempio: dice niente Istanbul?) su quella vittoria mancata avrebbe costruito l’ultimo piano del palazzo. Loro, i Cannonieri, no. Hanno tirato giù quasi tutto il palazzo e sono ripartiti dalle fondamenta. La mano è la stessa dal ’96: quella di Arsene Wenger.
Arrivato nel ’96 dal Giappone, prima di capire e soprattutto di farsi capire dall’ortodossia inglese ce ne ha messo di tempo. Un francese nato al confine con la Germania che allenava in Oriente: serve altro? Lui si è preso il suo tempo e ha cominciato a seminare. Semina francese, con tutti i connazionali che ha portato ci hanno fatto una squadra intera riserve comprese. Ha smontato e rimontato pezzi. Non ha dimenticato nulla: non la tattica, ma nemmeno le infrastrutture. Ha voluto un centro sportivo all’avanguardia, l’hanno costruito a Colney e come modello Wenger ha portato proprio Milanello, il collegio rossonero. Ha messo bocca nella costruzione dell’Emirates, non per il piacere dell’interferenza, ma perché fare il manager significa non avere limiti decisionali. Poi si è occupato della squadra.
Aveva Seaman, Adams, Campbell, Viera, Bergkamp, Henry: in 10 anni li ha persi tutti, ha destrutturato la sua creatura, venduto Henry per 22 milioni al Barcellona senza fare una piega e costruito la macchina del divertimento. Van Persie dall’Olanda, Fabregas dalla Spagna (ieri: «Se vogliamo diventare come il Milan, è il momento di dimostrarlo»), Adebayor dal Togo, capotribù di una colonia diventata riserva di caccia per gli scouts di monsieur Arsene. Già, Fabregas. Un blitz nella serra del Barça per cogliere il fiore migliore e senza tirare fuori un quattrino. Un colpo che hanno provato qualche anno dopo bussando alle porte dell’Internacional di Porto Alegre, ma hanno trovato occupato: dentro c’era il Milan che stava allungando le mani su Pato: 22 milioni, lui. Zero, Fabregas. Giocare d’anticipo, magari anche un po’ sporco, per non lasciare scoperte le casse. Filosofie diverse, ma sempre alla ricerca di un unico obiettivo: fare shopping di qualità. Il Milan invecchiava, l’Arsenal ringiovaniva. Ma il Milan vinceva, l’Arsenal cresceva.
«Incontriamo questa squadra nel momento migliore, alla qualità hanno aggiunto la continuità. Batterli ora è più difficile. Ma io sono tranquillo, siamo campioni del mondo e d’Europa, la nostra storia recente mi fa stare tranquillo»: le parole, quasi sussurrate, sono di Paolo Maldini, totem rossonero che vorrebbe smettere a Mosca, tappa di arrivo di questa Champions.
La storia del Milan. Accadimento che si ripete a ogni giro di coppa, Ancelotti guarda in faccia ai suoi guerrieri, non hanno bisogno di parole. Giocheranno i soliti (dubbio Oddo-Bonera, forse la spunta il primo), sul prato dell’Emirates metterà radici l’albero di natale, la coperta di Linus di questo Milan. Gilardino di punta, boa o galleggiante non dipenderà solo da lui. Pato in panchina, la freccia da lanciare se le cose dovessero girare male. O, paradosso, se dovessero andare così bene da aver bisogno di un peso leggero col pugno da ko.
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